Cieli di-versi

Articolo di Aldo Rocco VItale (GAC) uscito su Cosmo del gennaio 2024

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4/22/20248 min read

IL CIELO INEBRIA I POETI

Davanti al cielo profondo, trapuntato di stelle, la meraviglia è la prima forma di reazione, seguita dallo smarrimento. Ecco perché il poeta francese Guillaume Apollinaire (1880-1918) in I miei amici alla fine (1891) poteva scrivere che “a grandi sorsate mi ubriacavo di stelle”.

Del resto il cielo, per chi ne resta inebriato, circonda tutta l’anima, come si legge nel Cielo di Wislawa Szymborska (1923-2012), premio Nobel per la Letteratura nel 1996: “Da qui si doveva cominciare: il cielo. / Finestra senza davanzale, telaio, vetri. / Un’apertura e nulla più, / ma spalancata. / Non devo attendere una notte serena, / né alzare la testa, / per osservare il cielo./ L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre. / Il cielo mi avvolge ermeticamente / e mi solleva dal basso”.

La visione del cielo non è solo estetica, ma diventa estatica, tanto da sollevare l’animo di chi ne scruta le profondità, verso le cime della conoscenza e della passione, poiché l’osservazione del cosmo mette le ali allo spirito umano, come indicano i versi del poeta bengalese Rabindranath Tagore (1861-1941), nella Raccolta di frutti: “Le mie ali sono piene

/ di desiderio di cielo. / Vado a raggiungere le stelle cadenti, / a tuffarmi nell’ombra profonda”.

La letteratura è una maestra di finesse umana”: così il poeta di origine russa Iosif Brodskij (foto a lato)

(1940-1996), premio Nobel per la letteratura nel 1987, sintetizzava la natura della letteratura, in quel suo piccolo e intenso capolavoro dal titolo Dall’esilio, che ci introduce alla ricerca dei rapporti tra la letteratura e la volta celeste.

L’amore per il cielo passa attraverso lo studio dei meccanismi che ne svelano il funzionamento e le dinamiche, attraverso la messa a punto degli strumenti di osservazione, l’elaborazione delle immagini riprese, ma anche attraverso lo stato della pura e semplice contemplazione.

Ed è la contemplazione la fonte originaria da cui sgorga la voglia di conoscere e di indagare le profondità del cosmo, ma anche di esaltare la bellezza di quella gigantesca tela multicolore che costituisce il cielo notturno.

Così, allo stesso modo degli astronomi, anche scrittori, poeti e filosofi hanno provato il fascino, la forza attrattiva, la curiosità per le meraviglie del cielo, cristallizzando i sentimenti di stupore, amore e timore attraverso la propria sensibilità.

LA NOTTE MAESTRA DI LIBERTÀ

E proprio in quell’ombra profonda che la notte offre per il riposo, l’amante del cielo trova il proprio godimento che talvolta lo lascia senza parole, almeno secondo l’opinione di un geometra del pensiero razionale quale è stato il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804), che nella sua Storia generale della natura e teoria del cielo del 1755 precisava che “La vista del cielo stellato in una notte serena dona una specie di godimento che soltanto anime nobili provano. Nell’universale silenzio della natura e nella pace dei sensi, il segreto potere conoscitivo dello spirito immortale parla una lingua ineffabile e trasmette concetti inarticolati che si sentono, ma che non si possono descrivere”.

Peraltro, nella stessa opera, Kant polemizzava a posteriori con Isaac Newton per il ricorso al fondamento del “divino architetto” necessario per comprendere l’Universo, il quale è invece intellegibile - secondo il filosofo - anche senza questo espediente e mediante le sole leggi di natura.

Ed esattamente sotto la volta stellata, la cui immensità riconduce ogni uomo alle sue reali proporzioni, i poeti e gli scrittori hanno sempre percepito la propria libertà, come ricordano i “saggi solari” dello scrittore francese Albert Camus (1913-1960), premio Nobel per la Letteratura nel 1957: “A volte, di notte, dormivo con gli occhi aperti sotto un cielo gocciolante di stelle. Vivevo, allora!”.

Proprio quando l’astrofilo si sdraia sotto un cielo grondante di astri, la sua attrezzatura, concedendosi qualche istante di pausa, ecco che un senso di pace con la natura, con gli altri uomini e con se stesso lo pervade, facendo sparire ogni paura dell’esistenza, tanto da poter riflettere con le parole dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881) in Le notti bianche:

“Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa?”.

In fondo, è forse nell’al di là del cielo che l’uomo può ricongiungersi davvero con l’al di qua di sé stesso, per ottenere il più importante disvelamento, quello intorno al proprio essere e al proprio dover essere; infatti, come scriveva il poeta tedesco Novalis (pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg, 1772-1801), nei suoi Inni alla notte, è solo dopo il tramonto che “le distanze del cielo si colmarono di mondi luminosi.

E la notte divenne potente grembo di rivelazioni”.

VITA DA ASTROFILI

“Non chiedere a Dio la strada per il cielo: ti indicherà la più difficile”: così lo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec (1909-1966), nei suoi

Pensieri spettinati, sembra riassumere le fatiche quotidiane dell’astrofilo che spesso deve abbandonare affetti e comodità, percorrere lunghe strade nella pace notturna / le loro onde dorate / imbiancate dalla luna...”

LA CASA TRA LE STELLE

Nell’epoca del cielo cancellato dall’inquinamento luminoso, l’astrofilo deve allontanarsi da casa per avvicinarsi all’Universo, poiché il fondo del suo animo è domiciliato al di là dell’atmosfera, in una dimora eretta tra le arcate della notte, come insegnava il poeta russo Michail Lermontov (1814-1841): “Mia casa è ovunque sia la volta celeste / e ovunque s’oda suon di canti, / ciò in cui di vita sia favilla in essa / sta, nè al poeta è pure angusta. / Le stelle stesse col suo tetto attinge, / e dall’un muro all’altro corre / lungo cammino, che in cerca di un cielo buio, predisporre l’attrezzatura e trascorrere la notte al freddo, per scrutare i silenziosi abissi del cosmo.

La pianificazione e l’esecuzione di attività scomode e spesso solitarie, tra freddo e umidità, al di là di fame e sonno, e le elaborazioni successive, e tutto questo nonostante lavoro

e famiglia, ma il richiamo del cielo è sempre più forte di ogni altra fatica: non questa la natura autentica di ogni astrofilo?

La vita complicata dell’amante del cielo insegna proprio l’amore verso la quiete delle notti stellate, spesso trascorse come sospesi nel tempo, lontano dai centri abitati, come le notti cantate dal poeta russo Fëdor Ivanovič Tjutčev (1803-1873): “Nella calma notte della tarda estate / come nel cielo splendono le stelle, / come alla loro fosca luce / maturano i campi sonnolenti.../ silenziosi, immersi nel sonno, / come scintillano puoi misurare / non con lo sguardo, ma con il cuore”.

Nonostante ciò, proprio quando si ritrova lontano dal mondo civilizzato, accanto ai propri strumenti che silenziosamente operano per carpire

i segreti dello spazio profondo, talvolta anche per l’astrofilo esperto può sopraggiungere un senso di smarrimento, come narrano i versi di Perso in cielo del poeta statunitense Robert Frost (1874-1963): “Le nubi, fonte di pioggia, una notte / di bufera si aprirono alla fonte di rugiada, /

il che accettai con impazienza, in cerca / dei miei vecchi segni celesti nell’azzurro. / Ma in quell’arco di cielo poche stelle, / non due della stessa costellazione – / non una così accesa da distinguerla; / perciò con non ingrata costernazione / nel vedermi ancora perso sospirai:- /Dove, in che cielo sono? Ma non ditelo, / nubi che su me vi spalancate!

/ Che il mio smarrimento celestiale mi travolga”.

Quasi una risposta di smentita alle severe note dell’astronomo francese Camille Flammarion (1842-1925), per il quale “cieco chi guarda il cielo senza comprenderlo: è un viaggiatore che attraversa il mondo senza vederlo; è un sordo in mezzo a un concerto”.

TAGORE

LA PACE E LA QUIETE DEL CIELO

Come scosso dall’incanto notturno da un così potente ammonimento, però, a ogni astrofilo, almeno una volta nella vita, risuonano i pensieri intorno alla propria angoscia di creatura sospesa tra terra e cielo, riducendo ogni proprio tormento davanti all’immensità degli spazi siderali, come ha sapientemente sintetizzato Luigi Pirandello (1867-1936), premio Nobel per la Letteratura nel 1934, nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: “A quanti uomini, presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c’è sopra il soffitto il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l’esserci delle stelle non ispirasse a loro un conforto religioso, contemplandole, s’inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazii, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento”.Cercare la quiete sotto un manto di stelle, tuttavia, non significa trovare anche la pace dell’animo, almeno per lo scrittore portoghese Fernando Pessoa (1888-1935) che in Ho pena delle stelle liberava i suoi tormentati pensieri: “Ho pena delle stelle / che brillano da tanto tempo, / da tanto tempo.../ Ho pena delle stelle. / Non ci sarà una stanchezza / delle cose, / di tutte le cose, / come delle gambe o di un braccio? / Una stanchezza di esistere, / di essere, / solo di essere, / Tesser triste lume o un sorriso.../ Non ci sarà dunque, / per le cose che sono, / non la morte, bensì / un’altra specie di fine, / una grande ragione: /qualcosa così, / come un perdono?”.

Per parte sua, invece, lo scrittore austriaco Rainer Maria Rilke (1875- 1926), in Le prime stelle, traduceva l’incanto del crepuscolo, ricamando di versi il solenne sopraggiungere della notte: “Ardono i vetri su la casa muta. / Tutto il giardino è un olezzar di rose / Alta distende su l’etere fermo, / tra i larghi abissi delle nubi bianche, / l’ali, la Sera. / Una squilla si versa su le aiuole, / limpida voce di celesti mondi. / Furtiva, su le pallide betulle / colme di sussurrìi, veggo la Notte / che accende lenta nello scialbo azzurro / le prime stelle”. In fondo, è la notte la vera amante di ogni astrofilo, l’anima gemella che lo accompagna nelle tribolate giornate diurne, la dolce speranza del riposo dopo ogni quotidiana fatica, specialmente se la notte stellata è il primo vero amore fin dalla giovinezza, come ricordava lo scrittore di origine tedesca Hermann Hesse (1877-1962) in Bella è la gioventù: “Camminare all’aperto, di notte, sotto il cielo silente, lungo un corso d’acqua che scorre quieto, è sempre una cosa piena di mistero, e sommuove gli abissi dell’animo”. Questo amore e la coscienza di questo amore, in conclusione, sono in grado di donare autentica tranquillità all’animo umano, in qualunque circostanza si trovi, anche la più avversa, come la guerra o la prigione, almeno secondo quanto insegnava il matematico e presbitero russo Pavel Florenskij (1882-1937) in una delle sue lettere dal gulag: “Osservate più spesso le stelle! Quando avrete un peso nell’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta siscatenerà ne lvostro animo, uscite all’aria apertae intrattenetevi da soli con il cielo. Allora la vostra anima troverà quiete”

ALDO ROCCO VITALE

È UN ASTROFILO SPECIALIZZATO NELL’OSSERVAZIONE DI OGGETTI DEEP-SKY; È SOCIO DEL GRUPPO ASTROFILI CATANESI “GUIDO RUGGIERI”.